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Gennaro di Paola

Gennaro di Paola nasce il 28 Settembre 1922.

Questa è la sua testimonianza.


La nostra memoria è importante anche la storia, sia della lotta per la liberazione di Napoli, sia di quella del nord Italia.

Nel 1943, all'epoca delle Quattro Giornate, avevo ventuno anni e il 28 settembre, giorno del mio compleanno, mi sono ritrovato con un fucile in mano. Avevo già sperimentato vent'anni di fascismo, che sono significativi per capire il nostro stato di disperazione ed esasperazione. La rivolta non fu animata soltanto dai giovani, con loro vi era la gran parte della popolazione ed in particolare molti ex-combattenti. In quel tempo le famiglie erano numerose, eravamo abituati alla povertà, era già tanto garantirsi ogni giorno un primo piatto a tavola, eravamo quasi "allergici" al benessere.

Io ho frequentato lIstituto Tecnico Industriale Casanova, in questa scuola, come del resto in tutte le altre del tempo, non si dava molta importanza alla cultura, la preparazione consisteva, per lo più, nell'imparare qualche lavoro nelle officine della scuola. Ciò che più contava nella didattica, non era istruire i giovani, ma plagiarli, inculcare in loro il modello di soldato robot: sulla copertina dei libri di testo era scritto "Libro e moschetto, fascista perfetto".

Oltre alle normali tasse scolastiche, le famiglie erano costrette a pagare il tesseramento all'Opera

Nazionale Balilla, sul retro della pagella era infatti precisato "iscritto all'O.B." (Opera Balilla).

Quindi anche io ero Balilla.

Le istituzioni come quella dei "Figli della Lupa" o "Balilla" erano un mezzo per inculcare gli ideali di guerra, che venivano trasmessi anche tramite immagini e foto che mostravano, ad esempio, bambini in divisa da "Balilla" come dei soldati giocattolo. Anche partecipare al campeggio dei "Balilla" a Roma, a quattordici, quindici anni, era da considerare una cosa gratificante per un giovane balilla. Sin dalla più tenera età, l'educazione era improntata sugli ideali del fascismo, nei programmi scolastici era prevista un'ora di "cultura militare", progettata dai migliori esperti di strategia militare, tutto con l'obiettivo di creare dei robot. Si esaltava l'eroismo dei combattenti nelle trincee della prima guerra mondiale del 15 '18, circolavano libretti di canzoni militari o di canzoni di guerra, di cui, alcuni autori erano proprio napoletani, come E. A. Mario che scrisse La canzone del Piave. Le parole d'ordine per noi dovevano essere "Mussolini ha sempre ragione" oppure "Credere, Obbedire, Combattere!" o "Nudi alla meta!" o ancora "L'aratro traccia il solco, la spada lo difende". Ai bambini si regalavano delle baionette come se fossero stati balocchi.

Si arrivava a vent'anni con questa educazione e al massimo, si raccontavano barzellette sul regime. Per esempio, la scritta che i giovani portavano sul petto G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) era letta da noi ironicamente come: "Gioventù Incretinita Lentamente". La divisa del Balilla, che imponeva dei pantaloncini corti color grigio-verde, era un altro modo per raggiungere questo conformismo, che tutti accettavamo, o che eravamo obbligati ad accettare. Ci sentivamo dei piccoli eroi. Si tendeva, infatti, a creare una massa di automi, con menti che oramai avevano sempre e solo lo stesso ideale: la guerra. Nelle famiglie, di solito numerose, si prediligevano i figli maschi proprio perché potevano essere impiegati per la guerra. Le ragazze, quando, molto raramente, avevano la possibilità ed i consenso dei genitori di frequentare la scuola, dovevano pagare una tassa scolastica più alta rispetto ai maschi. Manifestazioni con fasci littori celebravano la patria ricordando la grandezza di Roma Imperiale. Spesso i Balilla facevano prove con maschere antigas, per prepararsi agli attacchi aerei in caso di guerra, ma soprattutto per abituarsi a considerare la guerra come un gioco, una cosa bella, divertente, un'esperienza positiva.

Ovviamente i racconti a casa erano tutta un'altra cosa, la guerra era e sarà sempre una cosa brutta. Ma i condizionamenti nell'educazione e nell'istruzione non erano i soli limiti dell'Italia mussoliniana. A meno di ventun'anni, a parità di ore di lavoro rispetto ad una persona più adulta, si percepiva il 20% di salario in meno. Le donne invece, sia giovani che adulte, percepivano sempre il 20% in meno. Una donna, anche quando riusciva a studiare, non poteva mai essere direttrice di scuola o preside, né poteva insegnare filosofia.

Fu bloccata l'emigrazione e si aggravò perciò la miseria, fame e povertà erano grandi. Il fascismo, in difesa della famiglia e della procreazione, aveva anche decretato la tassa sul celibato per tutti i celibi over venticinque fino a sessant'anni. Ecco perché si tentava di fuggire in tutti modi da quell'esistenza, c'era mancanza di libertà. La conquista dell'Etiopia, per la quale gli italiani usarono anche i gas asfissianti, fu vista come una soluzione al problema della povertà, si sparse la voce che, occupando nuove terre, sarebbe aumentato il nostro cibo. I Balilla furono portati all'imbarco per l'Africa, molti disoccupati si arruolarono pur di guadagnare qualcosa, soprattutto dopo che si sparse la notizia di ingenti guadagni per i soldati che sarebbero partiti alla conquista delle colonie africane. Quando iniziò la politica coloniale italiana si diffuse ovviamente, anche una mentalità razzista, questo prima ancora delle leggi razziali del 1938.

Un giornalista inviato sul fronte etiopico scriveva: "Avresti potuto vedere quei microbi neri fuggire". La Gazzetta dell'Emilia pubblicò un articolo dal titolo "Il miglioramento della razza italica grazie alla politica di Mussolini". Se un soldato italiano in Africa veniva scoperto con una donna nera, era rimpatriato, per evitare questa promiscuità si mandavano donne italiane in Etiopia. Si cresceva e si viveva nella diseducazione politica, giornali e radio dicevano tutti le stesse cose, cioè quelle imposte dal regime fascista. Si andava alle armi con questa educazione - diseducazione politica, con questi condizionamenti ideologici, con queste abitudini, con questi lavaggi del cervel-lo, e senza una precisa e completa formazione militare alle spalle. Andava di moda allora l'espressione "Largo ai giovani", che significava però, soltanto "Morire precocemente, senza le scarpe adatte", senza strumenti, armi idonee, senza un minimo di preparazione a quello che voleva realmente dire "fare la guerra": morire in Russia o nel deserto africano.

A scuola ci facevano partecipare a manifestazioni di protesta per la conquista di Nizza, Savoia, Malta, Tunisia, Corsica, ma non sapevamo niente della vera storia di questi territori, così ci trovammo con le armi in mano, eravamo ormai abituati all'idea della guerra. Quando nel 1943, gli attacchi si concentrarono sulla città di Napoli, si rischiava di morire ogni giorno uccisi da qualche bomba o sotto le macerie di qualche edificio, dal momento che i bombardamenti aerei americani erano all'ordine del giorno. Nei numerosi rifugi antiaerei vi era promiscui-tà, fame, miseria e, cosa peggiore, mancanza d'igiene. Nonostante le misure preventive del povero popolo napoletano, preso alla sprovvista e indifeso, numerosi furono i morti causati dai bombardamenti e, purtroppo, gli uomini non furono le uniche vittime, tantissimi documenti, oggetti importanti sono andati perduti, nascosti sotto le macerie o bruciati. Durante la guerra furono imposti agli italiani enormi sacrifici. Le donne dovettero consegnare le fedi d'oro alla patria, in cambio gli veniva dato un cerchietto di metallo, molte fedi furono poi trafugate dai gerarchi fascisti, il "ferro alla patria" (lattine, ringhiere dei balconi e dei giardini) veniva raccolto dall'UNPA (Unione Nazionale

Protezione Antiaerea). A Napoli nei focolari domestici c'erano le pentole di rame attaccate alla parete, facevano parte del corredo delle spose, erano l'orgoglio delle famiglie, furono requisite tutte, ne potevano rimanere in casa non più di due chili, in pratica un pentolone grande adatto per cuocere la pasta per una famiglia numerosa. Mia madre disse al funzionario che venne a requisire le nostre e che tanto esaltava la patria e la guerra "Chisti vonno fa 'a guerra cu 'e caccavelle meie!". In questa situazione, alla fine del settembre del 1943 Napoli si è ribellata. Le Quattro Giornate furono opera di un complesso di cittadini, tutto cominciò al Vomero e il passaparola non fu difficile perché a quei tempi si viveva nelle strade. Le Quattro Giornate di Napoli sono state dimenticate volutamente e, disgraziatamente, si parla spesso di quest'esperienza ma non delle vicende precedenti, tra l'altro anche gravi. I tedeschi si erano, infatti, impossessati delle città italiane ed avevano iniziato a sparare. E, quando, con un proclama del comandante Scholl furono richiamati tutti i napoletani abili al lavoro e se ne presentarono pochissimi, si aprirono le ostilità. La rivolta del popolo napoletano fu assolutamente spontanea, priva di ogni precedente organizzazione. Erano tanti i militari sbandati dopo l'otto settembre. L'organizzazione militare nacque in cia-scuno, si trascinarono anche i timidi e i paurosi. In Via Pigna si portavano le patate ai prigionieri di guerra. All'Arenella c'era un deposito del Lloyd triestino, una compagnia di navigazione, dalla quale la gente fu costretta a portar via con sè molti materiali di deposito. In ogni quartiere c'erano soldati sbandati, operai cacciati dalle fabbriche e antifascisti reduci dalla galera. I "grandi" erano scappati. Solo dopo il 25 aprile abbiamo cominciato a capire quello che era accaduto, gli antifascisti ci aiutarono a capire cosa erano stati in realtà il fascismo e il nazismo. I fascisti napoletani parteggiavano per i tedeschi. Vi racconto un episodio, una volta Gennaro Iannuzzi si scontrò con i tedeschi al Vico Trone e fu ucciso, il suo cadavere con una bara di fortuna, fu portato a S. Eframo dove c'era un convento. Era il 30 settembre, le Quattro Giornate erano quasi finite. Mentre eravamo nel giardino del convento, un fascista ci sparò addosso da un terrazzo di fronte. A Napoli si moriva anche mentre si stava affacciati al balcone. Prima dell'otto settembre i tedeschi erano gentili con la popolazione pur mantenendo le distanze, Erano molto ben organizzati e ben armati. Gli americani non sono stati molto diversi da loro, hanno fatto le stesse cose ma con cioccolato e sigarette, gli alleati in realtà erano "alleati tra loro" non con noi. Avevano bisogno di molta manodopera nel porto e, quando sono sbarcati in Sicilia, l'hanno fatto solo grazie all'aiuto dei mafiosi. Gli americani sono venuti per occuparci. Abbiamo cominciato le manifestazioni pacifiste nel 1949 e non abbiamo più voluto sparare.

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